"Non solo task shifting. Infermieri da valorizzare a partire dagli studi"
Migliore, presidente Fiaso, a Nursind Sanità: "Bisogna pagare i ragazzi che si formano e poi dare più autonomia ai professionisti". Sulle liste d'attesa: "Le Regioni hanno ridotto il perimetro di autonomia manageriale delle aziende"

L’intelligenza artificiale potrebbe correre in soccorso degli infermieri. Un supporto organizzativo e gestionale che ne valorizzerebbe le competenze e le funzioni, rendendo più attrattiva la professione. Giovanni Migliore, presidente Fiaso, la Federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere, è un convinto sostenitore del meccanismo del task shifting, ossia del trasferimento di compiti specifici da figure con una qualificazione più elevata a profili con formazione più breve. Per intenderci, dai medici agli infermieri o da questi ultimi agli oss che a loro volta si riqualificano e divengono assistenti infermieristici. A Nursind Sanità Migliore spiega: “Con gli strumenti dell’Ia sarebbe più facile precisare competenze e responsabilità, evitando sbavature, sovrapposizioni e tracciando chi fa cosa in modo ordinato e flessibile”.
Presidente Migliore, quali opportunità reali offre il task shifting al Servizio sanitario nazionale? E sulla base di quali principi va applicato?
Mi consenta una premessa. Sui medici abbiamo difficoltà riorganizzative, ma non abbiamo un problema di carenza. Invece per gli infermieri pesano numeri scarsi e dobbiamo rendere più attrattiva la professione nell’interesse dei cittadini. Il trend è negativo, penso però si possa invertire abbandonando certe rigidità e adottando alcune soluzioni con effetti di medio periodo, che potremmo vedere tra tre o cinque anni.
Quali?
Prima di tutto va reso più attrattivo il percorso formativo. Detta in altri termini, i ragazzi vanno pagati, dobbiamo sostenere le loro spese di formazione. E si può fare senza un impegno economico straordinario. Si tratta di un contributo che potrebbe assumere la forma del prestito d’onore, con il vincolo a lavorare poi nel Ssn.
Può bastare una borsa di studio?
L’altro provvedimento è quello di rendere la rete formativa più capillare, almeno per i primi tre anni. Il giovane deve poter fare training nel suo ospedale di riferimento, collegato all’università. Si tratterebbe di un sostegno enorme alle famiglie del futuro infermiere.
Poi, una volta concluso il periodo universitario, si tratta di valorizzare la professione.
Il ruolo va reso più gratificante con uno skill mix che definisca in modo puntuale funzioni e responsabilità. Collegato a questo c’è il tema della qualificazione del cosiddetto assistente infermieristico che l’infermiere coordina. Inoltre, oggi abbiamo la possibilità straordinaria offerta dal ddl sul riordino delle professioni sanitarie che introduce una possibilità da sfruttare per rendere gli infermieri più autonomi in tutta una serie di ambiti.
Alcune categorie restano scettiche sul meccanismo del task shifting e non si tratta solo dei medici.
Purtroppo i camici bianchi mantengono un atteggiamento corporativo. E non capiscono che questo meccanismo valorizza anche le loro prerogative. Io valgo di più come professionista se coordino persone che hanno maggiori abilità e competenze. Il lavoro di squadra è quello che genera valore aggiunto, pure per il medico. È così che si danno risposte tempestive ed efficaci, anche in condizione di emergenza. Gli errori arrivano invece quando non si sa gestire il team.
I tecnici di radiologia oppure le professioni della riabilitazione e della fisioterapia in passato hanno chiesto regole chiare. Altrimenti, sostengono, si rischia la dequalificazione e lo svilimento delle figure specifiche.
Ecco perché dobbiamo definire in modo preciso, ma non rigido, chi fa cosa, le responsabilità dei vari professionisti e così costruire il gioco di squadra sul paziente. Persino certe regole stringenti sull’accreditamento delle strutture mal si conciliano con gli sforzi che produciamo per mettere a sistema le competenze delle varie figure, come ci imporrebbero pure il dm 77 e la riforma della medicina del territorio. Al di là di una norma specifica sul task shifting, vanno riviste vecchie stratificazioni di obblighi in modo da far crescere professionalmente la figura dell’infermiere. Si tratta di un investimento necessario e di cui vedremo i benefici tra cinque o dieci anni.
Secondo lei dunque il sistema rimane troppo medico-centrico?
Abbiamo trascorso gli ultimi 20 anni a consolidare un sistema con il medico al centro. Ma il problema è che, anche con i camici bianchi, abbiamo passato troppo tempo a formare specialisti senza valorizzare i medici tout court. Si è dunque cementata la mentalità, nei cittadini, per cui conta soltanto chi ha una specializzazione. È vero che dobbiamo esaltare le professioni con la formazione, ma non dobbiamo ripetere l’errore che abbiamo commesso con i medici specialisti. Dopo tre anni un infermiere è un infermiere e merita di esercitare come tale. Dopo sei anni un medico è un medico e deve poter esercitare come tale. Abbiamo bisogno di tutti.
Sulle liste d’attesa il governo si gioca la faccia, ma i risultati sono a macchia di leopardo, al di là della nuova piattaforma di monitoraggio e del ricorso alle tecnologie. Qual è il punto di vista delle aziende sanitarie?
Quali che siano i risultati, dipende sempre dai professionisti e da come vengono gestiti. Oggi glielo dico con un po’ di preoccupazione: dal Covid in poi le Regioni hanno centralizzato le decisioni e hanno ridotto quel perimetro di autonomia manageriale delle aziende su cui si era fondato il nostro modello, un impianto che ha assicurato al Ssn grandi risultati negli ultimi 30 anni.
Il ministro Schillaci tende ad accusare le Regioni di non saper spendere i soldi che ci sono e di non saper applicare i dettami organizzativi. Le autonomie restano gelose delle loro prerogative. Dal vostro punto di vista chi ha ragione e chi torto?
Non è un problema di norme o di risorse. La riforma del Titolo V ha dato alle amministrazioni regionali responsabilità esclusiva sull’organizzazione dei servizi. Ma, ripeto, il primo problema è la centralizzazione in seno alle autonomie stesse.
Torniamo all’intelligenza artificiale: avete presentato l’Osservatorio nazionale sull’Ia in sanità, ma il nodo per tutta la Pa è quello del reperimento delle giuste competenze, al di fuori delle solite aree giuridica ed economica. Come stanno reagendo le Asl?
Dal direttore generale all’assistente infermiere, dobbiamo riprendere a valorizzare le competenze dei singoli. Nessuno di noi oggi viene valutato sulle capacità relative a un mondo che negli ultimi dieci anni è cambiato completamente. Bisogna costruire profili basati sui cosiddetti “privilegi”, intesi all’inglese come capacità di fare. Così possiamo scegliere chi ha un determinato skill mix per quel dato compito e non chi è deputato a svolgerlo in base a uno schema rigido.
Come va modificata la selezione dei dirigenti sanitari, che sicuramente ha fatto il suo tempo?
Oggi si valorizza molto l’aspetto organizzativo e gestionale delle carriere, mentre non abbiamo puntato su incarichi o esperienza professionale, perché questo ci obbligherebbe alla contrattazione uno a uno. A me piacerebbe molto valorizzare le competenze dei singoli attraverso la linea di evoluzione professionale e non gestionale.
Con l’inverno demografico e l’aumento delle cronicità, è cruciale la riforma dell’assistenza territoriale. Tuttavia, stentano l’applicazione degli standard del Dm 77 e la realizzazione del Pnrr. Come migliorare le cose?
Non critico ciò che fu messo a punto in un momento molto delicato del nostro Paese come era il 2020: era il massimo che si poteva fare in quel frangente. Adesso bisognerebbe però prendere atto di alcune contraddizioni e riflettere sui mancati risultati per ricalibrare quel modello. Condivido il principio del domicilio come primo luogo di cura, a valle del quale ci sono varie strutture, ma l’Italia è un Paese molto variegato e bisogna declinare lo schema in modo più flessibile, a seconda dei territori, tenendo conto ad esempio della rete delle farmacie o del ruolo dei medici di base.
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